STORIA DELLA DIGA DEL VAJONT
Testo tratto dal sito www.vajont.net
La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici
settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante
aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri
cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da
un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita
da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante,
provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto
comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100
metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti
austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a
giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi
vicini. La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. |
L'ondata, forte
di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo
nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del
Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia.
Allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più
intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di
goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze
terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non
poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si
abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi,
osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le
sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che
lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo
slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso
verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla
direzione di spinta.
Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente:
Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune
di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile
della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave,
diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo
dopo una decina di ore.
Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la
gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono
contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana,
seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato
nella storia italiana e mondiale........... si era consumata una tragedia tra le
più grandi che l'umanità potrà mai ricordare.
Gli scavi, iniziati nel settembre 1956 senza autorizzazione, misero in luce
alcune caratteristiche della stratigrafia geologica che in sede di previsione
non erano state rilevate. Durante la creazione delle "spalle" della
diga, aperte a forza di martelli pneumatici e cariche esplosive, la roccia non
si presentò compatta; ad ogni colpo la massa si sbriciolava in mille pezzi
mettendo in luce strati differenti di composizione geologica. Durante il
consolidamento erano sempre necessari enormi quantità di cemento, in quanto
questo veniva assorbito dalla roccia in maniera spropositata. Sicuramente questa
fu la prima indagine "vera" condotta sul posto e che doveva far
riflettere una volta di più sull'incompatibilità di quell'opera. Furono prese
decisioni contraddittorie, come il dilazionare nel tempo le esplosioni
diminuendone il carico esplosivo, al fine di non alterare l'elasticità della
roccia stessa.
Si riconobbe comunque di aver raggiunto il limite estremo di sicurezza in quanto
la roccia, da sola, non poteva fungere da forza resistente e andava aiutata con
misure protettive artificiali. Il 22 aprile 1958 il Genio Civile di Belluno
concesse alla SADE l'autorizzazione per l'inizio dei getti in calcestruzzo: i
lavori sarebbero stati ultimati nell'agosto 1960.
Durante questo periodo di intenso lavoro che confermava le capacità tecniche
delle maestranze italiane, avvennero due episodi che scossero l'opinione
pubblica e gli stessi addetti ai lavori: la frana di Pontesei (22 marzo 1959) e
il crollo della diga del Frejus (2 dicembre 1959).
Il Presidente della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici
designò, il 16 gennaio 1959, i componenti della Commissione di Collaudo che
erano anche incaricati di visionare l'avanzamento dell'opera. In particolare la
Commissione doveva rilevare eventuali difformità esecutive rispetto al progetto
o perlomeno suggerire soluzioni alternative più sicure, ma niente di tutto
questo avvenne. Durante la prima visita (19 - 21 luglio 1959), vennero attenuate
alcune problematiche sollevate dall'ing. Semenza, considerate
"sproporzionate al reale bisogno", come ad esempio l'inserimento tra
le rocce di un puntone in cemento armato che avesse funzione di trattenimento
per i grossi lastroni di roccia. Di questo e dei successivi quattro controlli
avvenuti entro il 17 ottobre del 1961, il Semenza non restò molto soddisfatto
ed alcuni suoi scritti lo testimoniano in modo abbastanza eloquente. D'altronde
il risultato non poteva essere diverso: tre dei membri della Commissione avevano
partecipato all'assemblea deliberante sul progetto del Vajont e quindi non
potevano di fatto opporre resistenze ad un qualcosa che avevano precedentemente
approvato.
Resta comunque interessante un resoconto scritto del prof. Penta, uno dei membri
della Commissione, nel quale si legge: "Una tra le maggiori fenditure,
lunga circa 2.500 metri, ha fatto sorgere i maggiori timori, in quanto può
essere interpretata come l'intersezione con il terreno di una superficie di
rottura profonda e che arriverebbe praticamente fino al fondo valle, separando
dalla montagna una enorme massa di materiale (........) ma non si hanno elementi
per giudicare se il fenomeno si estenda in profondità e se sia in atto
veramente un movimento di massa (...........) Il movimento potrebbe essere
limitato al massimo da una coltre dello spessore di 10-20 metri, con velocità
molto basse, e comunque non coinvolgerebbe masse di materiali tali da decidere
non solo della vita del serbatoio, ma anche del pericolo di sollecitazioni
anomale sulla diga (.......) Nell'altro caso, si dovrebbe ammettere la
possibilità di un improvviso distacco di una massa enorme di terreno (suolo e
sottosuolo)". La commistione politica, unita al potere pubblico e privato,
stava manifestandosi in tutta la sua forza. I funzionari della Pubblica
Amministrazione adottavano ormai differenti atteggiamenti a seconda delle
problematiche da affrontare:contrastavano i problemi che intralciavano la
normale esecuzione del piano e diventavano permissivi quando intravedevano
condizioni economiche favorevoli al progetto.
Il 12 dicembre 1962 una legge dello Stato stabilì che tutte le attività
relative ai processi di trasformazione dell'energia elettrica, dalla produzione
alla vendita, passassero dalla SADE all'ENEL, il nuovo Ente Nazionale Italiano
per la produzione dell'energia elettrica.
Approssimazione e accademicità furono le caratteristiche che contraddistinsero
i primi studi geologici. E ciò appare veramente incredibile considerando che da
queste indicazioni, imprescindibili, poteva venire o meno rilasciata la
concessione per l'esecuzione dell'opera. Il prof. Giorgio Dal Piaz, al quale il
Semenza aveva in prima istanza affidato il compito delle rilevazioni, nonostante
l'alta reputazione che godeva da tempo,non era più in grado, per via dell'età
avanzata, di affrontare con la dovuta energia l'impegno assunto. Invece di
effettuare le impegnative rilevazioni, così come sarebbe stato doveroso, il
professore si rimetteva alla sua personale esperienza passata, con esposizioni
alquanto generiche che non toccavano il problema, fino al punto di approvare le
opinioni del Semenza, che geologo non era. Ma un altro particolare va
considerato per capire la superficialità nella redazione del progetto: le
indagini geologiche rappresentarono solo una piccola percentuale del budget
previsto, con un importo fortemente inferiore alla media normale richiesta. In
questo particolare dunque, oggettivamente può essere ravvisata una
sottovalutazione, o per meglio dire una "incoscienza", dell'importanza
del problema geologico.
Quando, iniziati i lavori, sorsero i primi problemi tecnici, dipendenti quasi
unicamente dalla caratteristica della roccia trovata, si cercò di porre riparo
a questa lacuna, ma malgrado le successive indagini geologiche, più
approfondite e serie, rivelassero la vera natura del terreno e conseguentemente
verità preoccupanti, ormai era già tardi per tornare indietro.
In quest'ultimo lasso di tempo la SADE si impegnò ad intensificare gli studi
necessari per i quali, oltre al prof. Dal Piaz, vennero consultati anche il
prof. Caloi ed il geologo austriaco, esperto in geomeccanica,
Leopold Muller, che alla fine stenderà più di una relazione e si farà aiutare
anche da altri due geologi, certamente di non grossa esperienza, ma sicuramente
diligenti nell'esecuzione del loro lavoro: il dott. Franco Giudici ed il figlio
del progettista della diga, Edoardo Semenza, che giunsero ad interessanti
risultati.
La prima richiesta di invaso avvenne nell'ottobre del 1959: la SADE inoltrò al
Servizio dighe domanda di autorizzazione per un primo invaso sperimentale fino a
quota 600 e non aspettò la risposta: l'invaso iniziò il 2 febbraio 1960; solo
7 giorni dopo arrivò il permesso scritto delle autorità competenti che,
riconosciuto il parere favorevole della Commissione di Collaudo, autorizzò il
riempimento fino a quota 595. Nel frattempo venne installata, presso i comandi
centralizzati della diga, una sofisticata stazione sismica. Nel maggio di quell'anno
ci fu la successiva richiesta di elevare l'invaso fino a quota 660. Ma nella
domanda non veniva fatta affiorare l'ipotesi di un eventuale crollo della sponda
sinistra.
Fu proprio durante questa fase che, il 4 novembre, si staccò una frana di circa
700 mila metri cubi che fortunatamente non fece danno alcuno e comparve sulla
montagna la famosa "M" indice del preannunciato distacco della ben
più grande massa franosa. A seguito di un'ispezione della Commissione di
Collaudo, avvenuta alla fine di novembre, si constatò come in virtù di un
possibile movimento franoso successivo, il bacino potesse essere diviso in due,
creando quindi delle difficoltà per lo smaltimento
delle piene. Si riteneva comunque che per il livello raggiunto, di 650 metri,
non sussistessero particolari problemi da indurre a pericoli immediati, anche
perché i movimenti superficiali del fianco sinistro della valle si stavano
attenuandosi come rilevato dagli spostamenti più limitati che avevano subito i
capisaldi. Il resoconto della Commissione era abbastanza ottimistico, ma non
così le preoccupazioni dell'ing. Carlo Semenza, che in una lettera all'ing.
Ferniani di Bologna riconobbe che: "..........dopo tanti lavori fortunati e
tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte ad una cosa che
per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani" e intravede un
possibile pericolo per l'abitato di Erto, situato solo 50 metri più in alto
rispetto al livello di massimo invaso. I dubbi assalirono il progettista al
punto da fargli formulare una domanda: "Cosa succederà con il nuovo
invaso?". La riunione dei tecnici SADE, avvenuta nel mese di novembre,
decise per lo svaso, in quanto si riconobbe il comportamento anelastico della
roccia che, invece di respingere, "beveva" come una spugna l'acqua del
bacino.
Il livello di 710 metri, dieci oltre il limite di sicurezza, fu raggiunto il 4
settembre e si sarebbe dovuto mantenere per tutto il mese. In questa occasione
ripresero i movimenti della massa franosa e la falda freatica riprese a
risalire, benché questo fosse attribuito alle precipitazioni meteorologiche e
che comunque: "..........i movimenti rilevati nella zona del Toc non
destano per il momento preoccupazione, pur mostrando che il fenomeno
d'assestamento della sponda sinistra è sempre in atto e si acutizza quando si
sottopongono ad invaso nuove zone di sponda." Nella riunione tecnica
tenutasi il 18 di settembre, l'ing. Biadene, subentrato allo scomparso Semenza,
fece presente che se i movimenti non si fossero arrestati prima della fine del
mese, avrebbe proceduto ad uno svuotamento parziale del bacino fino a quota 695,
ritenuta da tutti come quota di sicurezza per eventuali imprevisti.
Nell'ultimo mese precedente la tragedia i cittadini della valle del Vajont erano
certamente impressionati da quanto succedeva: i boati che scuotevano
continuamente il terreno non inducevano di certo all'ottimismo. In un'ultima
lettera accorata, indirizzata all'ENEL-SADE, al Genio Civile, alla Prefettura di
Udine, al Ministero dei Lavori Pubblici, l'assessore Martinelli, a
nome del Sindaco di Erto, riassume le angosce sue e dei propri concittadini:
"......le popolazioni di Erto e Casso stanno vivendo in continua
apprensione e in continuo allarme; considerato anche il fatto che altri queste
cose minimizzano, ma che anche per la gente di Erto comportano la sicurezza
della vita e degli averi, questa amministrazione fa nuovamente presente le
proprie preoccupazioni per la sicurezza della popolazione e del paese
................... pertanto esige da codesto Spett. Ente la sicurezza, la
certezza che il paese non vivrà nell'incubo del pericolo prossimo o remoto, non
subirà danni né nelle persone, né nelle cose.......... E pertanto se tale
sicurezza codesto Ente per ora non può dare, con atto formale si avverte
codesto Ente di provvedere a togliere dal Comune di Erto e Casso lo stato di
pericolo pubblico, prima che succedano, come in altri comuni, danni riparabili o
non riparabili; quindi mettere la popolazione di Erto in stato di tranquillità
e sicurezza, solo dopo rimettere in attività il bacino del lago di Erto".
Il 27 settembre iniziò l'ultimo svaso, dapprima lento, quindi sempre più
veloce. Purtroppo questo ultimo estremo intervento non riuscì ad evitare il
peggio.
La corsa alla realizzazione pratica di un sicuro guadagno aveva fatto
dimenticare, ai tecnici della SADE e allo stessa Commissione di Collaudo, le
precauzioni necessarie. Limitare di qualche metro la capacità del bacino voleva
dire ammortizzare in un tempo più lungo il costo del lavoro svolto, che per
giunta era anche lievitato dalle varianti in corso d'opera necessarie per il
rinforzo delle spalle della diga e soprattutto della galleria di sorpasso,
scavata su roccia compatta: tutte opere non preventivate e con alti costi
sostenuti. L'orgoglio di poter vantare la più alta diga del mondo, realizzata
da specializzati tecnici italiani, unito ad una malaugurata corsa al profitto,
offuscò le menti al punto da essere considerato più importante della vita di
duemila persone.