GIOVANNINO GUARESCHI

La vita e le opere

Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, Parma 1 maggio 1908 - Cervia, Ravenna 22 luglio 1968) è stato un giornalista ed uno scrittore umorista italiano. La sua creazione più famosa è Don Camillo, il robusto parroco che parla col Cristo dell'altare maggiore. Il suo antagonista è il sindaco comunista del piccolo paese di provincia, Brescello, l'agguerrito Peppone, diviso tra il lavoro nella sua officina e gli impegni della politica.
Ambito e corteggiato dalle diverse fazioni politiche - di destra e di sinistra - che hanno attraversato almeno trent'anni di storia italiana, Guareschi è stato prima di tutto il cantore della propria personale libertà di espressione.
Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi (questo è il suo nome completo: Guareschi scherzava sempre sul fatto che un omone come lui fosse stato battezzato come "Giovannino") nacque in una famiglia di classe media. Nel 1926 la sua famiglia
andò in bancarotta ed egli non poté continuare gli studi,conseguita la Maturità Classica, si dedica al giornalismo. Nel 1929 vince, con la novella umoristica Silvania, dolce terra un premio letterario indetto dalla "Voce di Parma" e viene assunto al "Corriere Emiliano" passando da correttore di bozze a cronista, a capocronista. Licenziato, ottiene, grazie all’amico Cesare Zavattini, una collaborazione al "Secolo illustrato". Nel 1936, trasferitosi a Milano, diventa caporedattore del "Bertoldo", periodico bisettimanale umoristico di Angelo Rizzoli, diretto da G.Mosca e Vittorio Merz.
Nel 1941 pubblica con successo il primo libro, a carattere biografico, La scoperta di Milano e l’anno successivo pubblica Il destino si chiama Clotilde. Nello stesso periodo collabora alla terza pagina del "Corriere della Sera", alla "Stampa" e all’EIAR.
Durante la seconda guerra mondiale, Guareschi - penna pungente e pronta ad attaccare senza paura e reverenza i bersagli che più gli sembravano meritevoli di critica - mosse osservazioni al governo di Benito Mussolini. Nel 1943 venne arruolato nell'esercito, il che apparentemente lo aiutò ad evitare problemi con le autorità fasciste. Finì come ufficiale di artiglieria ad Alessandria.
Quando l'Italia firmò l'armistizio con le truppe Alleate, si trovava sul fronte orientale e venne arrestato e rinchiuso in un campo di prigionia in Polonia e poi in Germania per due anni, assieme ad altri soldati italiani, gli IMI (Internati Militari Italiani). In seguito scrisse su questo periodo in Diario Clandestino.
Dopo la guerra, nel dicembre del 1945, Guareschi fece ritorno in Italia e fondò con G.Mosca e G.Mondaini una rivista satirica monarchica, il Candido che diresse assieme a Mosca sino al 1950, rimanendo direttore unico fino al 1957 e continuando a collaborarvi fino al 1961, quando il settimanale cessa le pubblicazioni.
Risale al 1947 la raccolta in volume delle storielle pubblicate su "Candido" e "Oggi" col titolo l’Italia provvisoria, seguito, l’anno successivo, da Lo zibaldino, silloge di racconti pubblicati sul "Bertoldo", "Tutto" e "Corriere della Sera" dal 1938 al 1948. Nel 1948 appare la prima edizione di Don Camillo, dal quale nel 1952 viene tratto il primo film della fortunata saga con Gino Cervi e Fernandel. Il primo dei racconti della tetralogia di Mondo piccolo dal titolo "Peccato confessato", pubblicato su "Candido" nel 1946, incontra uno straordinario successo internazionale.
Dopo che l'Italia divenne repubblica, iniziò ad appoggiare la Democrazia Cristiana, principalmente a causa della sua profonda fede cattolica. Egli criticò e rese oggetto di satira i comunisti nella sua rivista: famosissime le sue vignette intitolate "Obbedienza cieca, pronta e assoluta", dove sbeffeggiava i militanti comunisti che lui definiva trinariciuti (la terza narice serviva a eliminare del tutto il cervello), i quali prendevano alla lettera le direttive che arrivavano dall'alto, nonostante i chiari errori di stampa. (Contrordine compagni! La frase pubblicata sull'Unità: 'Bisogna fare opera di rieducazione dei compagni insetti', contiene un errore di stampa e pertanto va letta: 'Bisogna fare opera di rieducazione dei compagni inetti.).
Nelle elezioni del 1948 Guareschi prese parte attiva contro i comunisti che insieme ai socialisti si erano alleati nel Fronte popolare. Molti slogan, come "Nella cabina Dio ti vede, Stalin no", uscirono dalla sua mente fervida. Anche dopo la vittoria della DC e dei suoi alleati, Guareschi non abbassò certo la sua penna: anzi criticò anche la Democrazia Cristiana, che a suo parere non seguiva i principi cui si era ispirata. Guareschi non si poteva certo definire una persona conciliante. Nel 1950 fu condannato con la condizionale a otto mesi di carcere nel processo per diffamazione all'allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che era da lui stato accusato di interesse privato nel promuovere i vini delle sue tenute.
Nel 1953 pubblica Don Camillo e il suo gregge
Nel 1954 Guareschi venne nuovamente accusato di diffamazione per avere pubblicato sul Candido due lettere apocrife di Alcide De Gasperi (poi Primo Ministro nel dopoguerra) risalenti al 1944, nelle quali de Gasperi avrebbe chiesto agli Alleati anglo-americani di bombardare Roma allo scopo di demoralizzare i collaboratori dei tedeschi. Le lettere in questione sono state ritenute dei falsi in un successivo processo giudiziario; ad ogni modo il processo riguardava appunto la diffamazione e Guareschi fu condannato a dodici mesi di carcere in primo grado. 
Essendosi rifiutato di ricorrere in appello contro quella che lui riteneva un'ingiustizia, venne recluso nel carcere di Parma, dove rimase per 409 giorni, più altri sei mesi di libertà vigilata ottenuta per buona condotta. Sempre per coerenza, rifiutò sempre di chiedere la grazia. Lo scrittore esce dal carcere moralmente provato.
Nel 1956 la sua salute si era deteriorata ed egli iniziò a trascorrere lunghi periodi in Svizzera per motivi di salute.
Nel 1957 si ritirò da redattore del Candido rimanendo tuttavia un contributore ,sul quale pubblica a puntate nel 1959 Il compagno Don Camillo,della rivista fino al 1961. Continuò a collaborare a vari periodici con disegni e racconti. Nel 1963 scrive, con Pasolini, la sceneggiatura del film La rabbia; nel 1967 la fiaba La calda estate di Gigino pestifero; nel 1968 il romanzo incompiuto L’Albania è vicina: accadde domani e Don Camillo e i giovani d’oggi.
Il 22 luglio 1968 morì per un attacco di cuore.

Il racconto della sua nascita
Giovanni Faraboli fu, nei primi anni del Novecento, il fondatore delle cooperative rosse della Bassa.
Quando nacque Guareschi, i baffi dei socialisti erano neri e i fazzoletti rossi erano fiammanti. Era il primo maggio 1908 e Giovanni Faraboli, dal balcone della Villa Rossa sulla provinciale all’imbocco di Fontanelle, parlava di cooperativismo a centinaia di braccianti coi cappelli calcati sulla nuca e la voglia di cambiare. La Villa Rossa era la sede della Cooperativa ed era stata affittata ai socialisti per un compenso simbolico dal padre di Guareschi, Primo Teodosio Augusto, che l’aveva fatta tinteggiare di rosso. A Fontanelle, i vecchi ricordano bene Primo Augusto Guareschi: era davvero l’uomo che il figlio descrisse nelle storie che aprono il primo volume su don Camillo. Era alto, magro e potente, con lunghi baffi, un grande cappello, la giacca attillata e corta, i calzoni stretti alla coscia e gli stivali alti. Dicono che faceva paura quando si piantava a gambe larghe davanti a qualcuno.
Giovanni Faraboli finì quel primo maggio 1908 il suo discorso e la banda attaccò l’internazionale. Accanto a Faraboli, sul balcone della Villa Rossa, comparve Primo Augusto con un fagotto bianco.
«Questo è mio figlio, nato da poche ore. Lo chiameremo Giovanni, come te, amico mio. Ma poi no, per non fare confusione lo chiameremo Giovannino» disse Primo Augusto. Giovanni Faraboli prese tra le braccia il neonato, lo mostrò al senatore D’Aragona che gli era accanto, con un gesto chiese il silenzio della piazza. «Oggi è nato un nuovo compagno!» esclamò e col fazzoletto rosso che aveva al collo avvolse il bambino.
Beppe Gualazzini, Guareschi, Milano 1981

La vita di Giovannino Guareschi narrata da lui stesso
Adesso vi racconto tutto di me.
Il 1 maggio 1908, a Fontanelle di Roccabianca, ridente villa della Bassa parmense, in una delle casette che si affacciano sulla piazza, nacque una bambina cui poi venne dato il nome di Ermelinda. Non ero io: io nacqui si in quel paese e il primo maggio 1908, ma in una casa dall'altra parte della piazza. Tanto è vero che poi mi venne dato il nome di Giovannino. In complesso mi chiamo Giovannino Guareschi e ho l'età esatta che si addice a un giovane uomo nato nel 1908. Ho due figli che a me sono molto simpatici. Il primo si chiama Alberto, il secondo si chiama Carlotta. Ciò dipende dal fatto che mentre il primo è di sesso maschile, il secondo è di sesso femminile: come del resto è di sesso femminile la madre, una signora che era molto più simpatica quando era ancora signorina. I miei figli e mia moglie hanno complessivamente 70 anni. L'età di mia figlia più l'età di sua madre fa 57. L'età di mio figlio più l'età di sua madre fa invece 60. Questo è tutto quello che posso dirvi dell'età di mia moglie. Per facilitarvi posso aggiungere che mia figlia ha 10 anni.
Ho frequentato con profitto il Liceo Classico dove ho imparato come non deve scrivere un giornalista. Poi ho frequentato l'Università ma non ho ancora trovato il tempo per laurearmi: l'unico inconveniente è che, adesso, non mi ricordo più se ho frequentato il corso di Giurisprudenza o quello di Medicina. Il parere dei miei compagni di studi è discorde. Scrivo e disegno, ma non sono in grado di dirvi se sono da disistimare più come scrittore che come disegnatore.
Ciononostante tiro avanti discretamente, aiutato molto dal fatto di possedere due notevoli baffi che mi danno una certa notorietà. Conduco una vita molto semplice. Non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo nelle vitamine. In compenso credo in Dio. Sono un lavoratore tenace e, sotto questo aspetto, sono la consolazione della mia famiglia, e i miei figli mi citano sempre come esempio alla loro madre. Da parte mia sono profondamente grato ai miei genitori d'avermi messo al mondo.
E gratissimo sono al Padreterno perché non m'ha fatto nè peggiore nè migliore di quello che sono. lo volevo essere esattamente così come sono. Diverso di così mi andrei largo o stretto.

Il suo congedo dal candido
« Vivo isolato come un merlo su una pianta. Fischio, ma come faccio a sapere se quelli che stanno giù mi sentono? »
Candido, 22 ottobre 1961. Questo il congedo:
Cari Candidolettori: un uomo tornava dalla guerra e ne aveva passate d’ogni genere. Bombe grosse come una casa gli erano scoppiate a pochi metri, si era trovato sotto temporali di shrapnels, di spezzoni incendiari, di pallottole di mitragliatrice e di fucile. Si era trovato sommerso in un mare di gas asfissianti. Buttandosi da un dirigibile, il paracadute non si era aperto, il camion sul quale viaggiava era finito dentro un burrone. Insomma, gli erano successe proprio tutte, nessuna esclusa, e sempre il nostro ometto se l’era cavata senza nemmeno un graffio. Adesso, finita la lunga guerra, tornava a casa. Sbarcato dal treno al suo paesello, mentre usciva dalla stazione, l’ometto metteva una zampa su una buccia di arancia, scivolava, cadeva picchiando la zucca sulla soglia e ci rimaneva secco come un chiodo. Voi capite dove voglio arrivare: è successo che il vecchio Giovannino, passato senza danni in mezzo a tanti guai grossi, è scivolato su una buccia di qualcosa. Così mi incarica di dirvi che gli dispiace immensamente, dopo tanti anni, di lasciarvi. Vuole che lo faccia io perché dice che lui si commuove e poi i baffi incominciano a gocciòlare e, allora, non è uno spettacolo bello, ma sa tanto di autunno e fa venire un magone così. Io viaggiavo con lui, sulla stessa barca, e, se Giovannino va, me ne devo andare anch’io. Non lo posso abbandonare in un momento delicato come questo. Dice Giovannino che vi lascia una eccellente situazione: miracolo economico, miracolo governativo e via discorrendo. Se ne va, quindi, tranquillo perché meglio di così non potrebbe andare. E anche peggio di così non potrebbe andare. La democrazia ha raggiunto l"optimùm" nei due sensi opposti (positivo e negativo) e non potendo andare né più in alto nè più in basso, le conviene fermarsi. Quindi, dice sempre il Giovannino, statevene tranquilli: se la sua presenza non poteva migliorare di un milionesimo di millimetro le cose, la sua assenza non potrà peggiorarle di un miliardesimo di milionesimo di millimetro. Vi saluto anche io e, se non potremo più tenerci visti, cerchiamo di tenerci pensati.

Il racconto dei funerali di Guareschi
Il cielo era a teloni grigi e bassi. A tratti pioveva, a tratti correva il vento. La signora Ennia salutò ilferetro del marito sulla soglia di casa, non ebbe la forza di seguire il corteo, sarebbe caduta a terra dopo pochi passi, lo sapeva. Restò a casa, rabbrividendo davanti al camino spento con accanto la moglie di Albertino. La bara fu portata a spalle da Albe rtino, dal marito di Carlotta, dagli amici delle Roncole.
La gente si incamminò rispettosa dietro il feretro, ora aprendo, ora richi udendo gli ombrelli. C’erano i chierichetti, i bimbi delle scuole, il parroco di Roncole, don Adolfo Rossi, che salmodiava, solo due corone difiori, niente musica. La sirena di una fornace, sul tragitto del corteo, soffiò tre volte unendosi allo scalpiccìo dei passi della gente. I tre sibili si allargarono nella Bassa e gli operai, nelle loro tute di lavoro, stavano in piedi silenziosi accanto aifinestrini. A Guareschi sarebbe piaciuto.
Prima di officiare il rito funebre, don Rossi si piantò davanti all’altare tenendo tra le mani un libro di Guareschi. Lo aprì e ne lesse un brano e la voce, bassa, rotolò come un tuono che si avvicina.
«Così scrisse una volta: "Adesso vi racconto tutto di me: ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie. Ma in compenso credo in Dio". »
Don Rossi ripose il libro, guardò la bara, si aggiustò la stola sulle spalle con un paio di manate.
«Su questa terra» disse, e pareva esplodesse «noi piantiamo la croce di Cristo, del tuo Cristo che hai saputo far vibrare nei cuori e nelle coscienze degli italiani e di tanti altri milioni di uomini, soprattutto nell’ora della lotta. E adesso celebriamo la Messa. Come fiore di ricordo, userò la tua lingua antica, il tuo latino. So che lo gradirai in modo particolare perché, quando nelle chiese fu imposto il rito in lingua italiana, dicesti un giorno al tuo don Camillo: "Quando vorrai dire una Messa clandestina a casa mia, vieni, tutto è sempre pronto". »
Dopo la Messa in latino, la bara fu portata nel cimitero diRoncole. Era stata scavata una fossa nella terra, sulla sinistra, subito vicino al cancello d’entrata. Ed era stata portata una benna di terra scavata dai greto delfiume.
Beppe Gualazzini, Guareschi, Milano 1981

L’Italia meschina e vile, l"Italìa provvisoria", come lo stesso Guareschi con amara intuizione la definì nel 1947, ci ha fornito ieri l’esatta misura del limite estremo della sua insensibilità morale e della sua pochezza spirituale.
Giovannino Guareschi è lo scrittore italiano più letto nel mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l’Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo: non il ministro, non il sottosegretario, non qualcuna delle tante eccellenze e dei tanti direttori generali che affollano il ministero della Pubblica Istruzione e l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Neppure un commesso della Camera o un usciere del Senato.
Guareschi ha avuto la disgrazia di morire in Italia. Se fosse morto in Francia, è certo che André Malraux, uno dei più acuti e penetranti scrittori del nostro tempo e oggi ministro degliAffari Culturali del governo francese, avrebbe trovato il tempo per andare al suo funerale. Diciamo tutto ciò con molta malinconia. L’Italia è fatta così: e qui, più che altrove, l’ingratitudine degli uomini è più grande della misericordia di Dio. Meglio così:
eravamo in pochi, ma almeno eravamo i suoi amici veri.
Il sindaco e la giunta comunale di Busseto, in ferie, hanno inviato il gonfalone del Comune. C’erano gli scolaretti delle elementari di Roncole Verdi con lo stendardo della scuola, ma nessun assessore alla Pubblica Istruzione, né della Provincia, né di Parma, né di altri Comuni. Era invece presente il cavalier Angelo Tonna, sindaco di Roccabianca, vecchio militante socialista e fior di galantuomo.
Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. E un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani.
Baldassarre Molossi, La Gazzetta di Parma, 25luglio 1968

Narrarono di Giovannino
Guareschi ha molti fili bianchi nei baffi. Veste sempre dallo stesso sarto, un artigiano di Roncole che cuce e taglia alla cacciatora. Non porta cravatta ma foulard colorati. Ha un solo abito vero, a doppio petto, e lo tiene in naftalina. Le scarpe sono di vacchetta rossiccia come le portava il sindacalista Faraboli. Non fuma più. Non beve più. Sorbisce aranciate con una cannuccia e trae di tasca il tubetto del bicarbonato brontolando. Nella sua cucina ci sono tre Re: Vittorio Emanuele 11 in bronzo (un affare: acquistato per quindicimila lire da un antiquario repubblicano); Vittorio Emanuele 11 in ceramica diAlbisola mentre saluta il generale Garibaldi, e Umberto 11, in una fotografia 13 per 18, con una dedica affettuosa. Nessun disegno del padrone di casa che si dondola sotto una stampa popolare intitolata «I gradi delle età»: una salita e una discesa. Una stampa allusiva, forse scelta con malizia, con il vetro che riflette i guizzi delfuoco. A un tavolo, sotto una lampada, Margherita ci guarda per vedere quando cominceremo a parlare. Margherita è la madre di Albertino e della Pasionaria, il personaggio-chiave del Corrierino delle famiglie. Nella vita di tutti i giorni si chiama invece Ennia. E aspetta le dichiarazioni di Giovannino.
Dalla poltrona a dondolo sogna: «Ci vorrebbe un giornaletto come dico io, tutto nervoso, tutto sul filo...
Scende la sera, ed è una sera padana, colma d’ombre, con pochi lumi oltre le siepi e la neve che scricchiola sotto le scarpe.
Giorgio Torelli, Grazia, 1963.

Giorgio Bocca su la Repubblica, il 6 marzo del 1981, ha riconosciuto a Guareschi:
«E milioni di italiani devono essersi chiesti: ma perché la cultura, gli intellettuali, ci hanno mentito per anni? A fiuto, a naso, i nostri intellettuali avevano capito che quell’isolato, irsuto, anomalo scrittore della Bassa padana aveva dentro di sé qualcosa di molto pericoloso: pensava con la sua testa, diceva la sua verità, discutibile, certo, nei contenuti e nello stile, ma una verità opposta al niente, alla menzogna, al conformismo, al sovieto-americanismo degli scrittorucoli che vincevano il premio Viareggio e che avrebbero impiegato chi venti, chi trent’anni per accorgersi che nell’ URSS c’era una dittatura burocratica».

E OGGI DICONO DI LUI

Articolo tratto dal settimanale on-line "Da Bice si dice" www.dabicesidice.it
24 luglio 2008

Les idiots savants  

Il Conte Ugolino propone un ritorno a quarant’anni fa: una sorta di memoriale di Giovannino Guareschi, della sua morte e della sua inimitabile verve giornalistica. Un documento per alcuni certamente prezioso, per altri, forse, pruriginoso, meritevole tuttavia di una lettura.

24 luglio: accadde l’altro ieri.

Non ho particolare predilezione per gli anniversari perché spesso sono stiracchiati, quasi dovuti, quando non mercanteggiati. Per questo ho atteso due giorni e, invece di ricordare il triste giorno della Sua morte, ricordo il giorno delle Sue esequie.
Sono trascorsi quarant’anni dal 22 luglio di quell’anno; anno troppo spesso evocato impropriamente, anno che si portò via quasi in silenzio, assieme a troppe altre cose, la vita di Giovannino Guareschi e, un mese dopo, l’anelito di libertà del popolo cecoslovacco.
Quasi in silenzio perché i due eventi, il primo luttuoso e il secondo tragicamente funesto, furono sovrastati dall’ignobile pandemonio provocato da una ciurma di delinquenti scalmanati. Teppaglia lasciata libera di agire da una camarilla di politicanti inetti, infingardi e vigliacchi cui la maggioranza del popolo italiano aveva delegato il potere di governare. Governare significa, fra le altre cose, garantire ai cittadini l’ordine e il rispetto delle leggi, anche a costo di qualche rischio di impopolarità. Ma questo è un altro discorso.
So bene che in questo mese si sono moltiplicate le iniziative per ricordare sia la morte di Guareschi, sia l’invasione della Cecoslovacchia, ma la sordina, quando non il bavaglio, impediscono che tali eventi abbiano la risonanza che meritano.
So anche bene che le mie parole non contano nulla, non sono che una goccia nel mare sconfinato dei mezzi d’informazione, tanto più paludati quanto più ideologicamente asserviti. Tuttavia, anche se si tratta solo di una goccia, lasciate che vi parli di Giovannino Guareschi e della Sua genialità di scrittore.

Inizio a ritroso, proprio dalla Sua morte e dai Suoi funerali.

La giornata era bigia, con nuvole basse e folate di vento che si alternavano alla pioggia. Il figlio Albertino, il marito di Carlotta e gli amici di Roncole sorreggevano la bara. Altri amici seguivano il feretro: niente musica e solo due corone di fiori. Apriva il corteo il parroco di Roncole, don Adolfo Rossi, attorniato dai chierichetti e seguito dai bimbi delle scuole. Ruppe il silenzio il sibilo della sirena di una fornace, ripetuto per tre volte.
In chiesa, don Rossi aprì un libro di Guareschi e, con voce grave, ne lesse due righe:
"Adesso vi racconto tutto di me: ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie. Ma in compenso credo in Dio". Poi, riposto il libro, don Rossi con voce ferma disse:

«Su questa terra noi piantiamo la croce di Cristo, del tuo Cristo che hai saputo far vibrare nei cuori e nelle coscienze degli italiani e di tanti altri milioni di uomini, soprattutto nell’ora della lotta. E adesso celebriamo la Messa. Come fiore di ricordo, userò la tua lingua antica, il tuo latino. So che lo gradirai in modo particolare perché, quando nelle chiese fu imposto il rito in lingua italiana, dicesti un giorno al tuo don Camillo:
"Quando vorrai dire una Messa clandestina a casa mia, vieni, tutto è sempre pronto".
Dopo la Messa in latino, la bara fu portata nel cimitero di Roncole.[1]
Vi riporto ora un articolo a firma di Baldassarre Molossi, pubblicato sulla Gazzetta di Parma il 25 luglio 1968 in occasione dei Suoi funerali.

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22 luglio 1968 Giovannino muore a Cervia[2]

L’Italia meschina e vile, l"Italia provvisoria", come lo stesso Guareschi con amara intuizione la definì nel 1947, ci ha fornito ieri l’esatta misura del limite estremo della sua insensibilità morale e della sua pochezza spirituale. Giovannino Guareschi è lo scrittore italiano più letto nel mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l’Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo: non il ministro, non il sottosegretario, non qualcuna delle tante eccellenze e dei tanti direttori generali che affollano il ministero della Pubblica Istruzione e l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Neppure un commesso della Camera o un usciere del Senato. Guareschi ha avuto la disgrazia di morire in Italia. Se fosse morto in Francia, è certo che André Malraux, uno dei più acuti e penetranti scrittori del nostro tempo e oggi ministro degli Affari Culturali del governo francese, avrebbe trovato il tempo per andare al suo funerale. Diciamo tutto ciò con molta malinconia. L’Italia è fatta così: e qui, più che altrove, l’ingratitudine degli uomini è più grande della misericordia di Dio. Meglio così: eravamo in pochi, ma almeno eravamo i suoi amici veri. Il sindaco e la giunta comunale di Busseto, in ferie, hanno inviato il gonfalone del Comune. C’erano gli scolaretti delle elementari di Roncole Verdi con lo stendardo della scuola, ma nessun assessore alla Pubblica Istruzione, né della Provincia, né di Parma, né di altri Comuni. Era invece presente il cavalier Angelo Tonna, sindaco di Roccabianca, vecchio militante socialista e fior di galantuomo. Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. E un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani.
Gli altri non contano.
»
Gli altri, soggiungo io, quelli che non parteciparono alle esequie e che “non contano”, appartengono a due categorie: la prima, attinente all’apparato di potere, è la categoria dei politicanti inetti, infingardi e vigliacchi. La seconda, inerente ai cosiddetti o, per meglio dire, ai sedicenti “intellettuali”, è la categoria des idiots savants
[3].
Torniamo a Guareschi giornalista e scrittore. Molti, quasi tutti, lo ricordano per le indimenticabili storie della Bassa, con i due protagonisti don Camillo e Peppone. Io però vorrei percorrere una via diversa.
Occorre riconoscere che Vittorio Feltri talvolta ne imbrocca qualcuna giusta: egli ha il merito di avere ripubblicato e regalato, in abbinamento a Libero, le copie anastatiche di alcuni numeri del Candido, il “settimanale del sabato” fondato e diretto da Giovannino Guareschi.
Il primo numero uscì il 15 dicembre 1945 quando l’Italia, dopo soli otto mesi dalla fine della guerra, tentava di rialzarsi[4].
Tre anni dopo, sul n.° 12 del 20 marzo 1948, “l’articolo di fondo” fu costituito dalla lettera aperta di un lettore e dalla risposta di Guareschi.
Lettera aperta
II compagno Maurizio G. ci scrive:
“Sig. Guareschi,
Leggo, ogni settimana, il vostro giornale. Ho l’impressione che voi giochiate “a mosca cieca”. Io sono un comunista “coltissimo” e, diversamente da quanto Lei afferma, con me e con gli altri è “possibile ragionare”. Dimentichi per un momento di essere “un umorista” e si sforzi di essere una persona, seria e in buona fede. Per un momento soltanto!
Sinceramente: non le pare piuttosto volgaruccio e antilogico parlare ai “Pancho Villa”, di “ficozze” sulla testa, di esseri di un solo sesso, di “ trinaricismo”, di vite, dado e controdado? (non “dato”, come ha erroneamente scritto).
Non le pare di cattivo gusto, oltreché falso, parlare “di ammassi cerebrali”, di obbedienza “pronta, cieca e assoluta”? Suvvia, signor Guareschi, ragioni un poco seriamente: è un comunista che glielo chiede. - L’umorismo - risponde lei - si fonda sull’esagerazione. - E sia - rispondo io -, ma non sulla falsificazione e sulla malafede. Lei è in malafede; recluta tutte le argomentazioni più assurde e più matusalemmiche, dà loro una veste umoristico-ironica e le ammannisce al grosso pubblico, che, in maggioranza, è più superficiale di quanto Lei stesso sia. Sì, Lei è superficiale: penso che conosca il Marxismo per “sentitodire” e i comunisti da singoli episodi. Certo Lei, “in tutt’altre faccende affaccendato”, non avrà mai sforzato il cervello per leggere uno scritto di Lenin o di Gramsci, ne s’è preso mai la briga di osservare con serenità il mondo operaio. Lei mentisce, sapendo di mentire: di scarsa cultura, ha una famiglia da mantenere, e quindi problemi economici da risolvere. La comprendo e la compatisco; non la giustifico, né la perdono.
d ora un consiglio: studi, la prego, il marxismo; studi, la prego, economia politica. Forse allora, a Dio piacendo, potrà dare un significato esatto alla parola “libertà”, “progresso”, “civiltà”.
E
Un altro consiglio: non scriva più “Lettere al migliore” o al “peggiore”.
Creda, il P.C.I. si occupa di Lei proprio come un meccanico si occupa di una vite o di un bullone. È la verità.
Cerchi, per il suo bene, di “puntualizzare” il momento storico in cui vive il mondo: per lei e per “il postero”. Non vivrà più sulle nuvole né scrollerà più mestamente il suo prezioso capo.
Maurizio G.
N. B. Non ardisco sperare che Lei pubblichi questa mia: sarebbe troppo leale!».
No, compagno Maurizio, tu ci chiedi troppo! Non posso pubblicare la tua lettera. Non lo posso per mille ragioni non ultima quella del mio prestigio personale che, dalla pubblicazione della tua lettera, verrebbe paurosamente diminuito. A parte la faccenda che io scrivo «dato» invece di «dado» (alle volte mi avviene di pubblicare per la mia ignoranza articoli addirittura con qualche riga capovolta) tu metti il dito nella piaga e scopri quello che io affannosamente tento di nascondere: sono superficiale. Tu mi capisci: io mi arrabatto a citare nei miei scritti lunghi passi di classici italiani e stranieri, affronto problemi astrusi, ammanto la mia prosa di orpelli retorici o mi butto verso l’ermetismo per confondere il lettore, per dargli la sensazione che io ho una profonda base culturale, un substrato filosofico, e tu mi smascheri e dimostri la mia ignoranza e la mia malafede. Sarei un incosciente a pubblicare la tua lettera. Tu hai scoperto il mio punto debole: che Lenin e Gramsci non sono tra i miei autori preferiti, che conosco il marxismo soltanto per sentito dire. E, questo è grave, che conosco i comunisti soltanto attraverso i singoli episodi. Ebbene, in tutta confidenza: è vero. Io mi son fatto il concetto che ho, dei comunisti, attraverso singoli episodi: dal singolo episodio della corazzata Potemkin, al singolo episodio di Trotskij, dal singolo episodio dei piani quinquennali, al singolo episodio della Ceka, della OGPU, della NKDV. Dal singolo episodio delle epurazioni, al singolo episodio dei campi di lavoro obbligatorio, dal singolo episodio delle deportazioni di popolazioni intere, al singolo episodio della democratizzazione dell’arte. Sì, compagno Maurizio; soltanto singoli episodi ultimi dei quali i singoli episodi della Polonia, della Lettonia, dell’Estonia, della Lituania, della Romania, della Bulgaria, della Jugoslavia, dell’Albania. dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, della Finlandia, di Petkov, di Manju, di Masaryk. Sì, io ho una conoscenza, diciamo, esclusivamente episodica dei comunisti, ma non posso certamente confessarlo ai miei lettori i quali credono ingenuamente che io conosca il comunismo attraverso gli scritti di Lenin, Gramsci, Grieco e del barbiere Germanetto. Se essi soltanto sospettassero che io i comunisti li conosco attraverso episodi singoli come quello delle poche ventine di migliaia di prigionieri italiani non usciti dai lager russi, quale concetto si farebbero di me? Quindi, compagno Maurizio, io non posso pubblicare la tua lettera. La quale poi è tale da mettere nell’animo dei nostri lettori tali dubbi da orientarli decisamente verso il Fronte Comunista. Non dire che sono sleale: ho famiglia, non posso rovinarmi la piazza! Mi fa piacere sapere che il PCI si occupa di me proprio come un meccanico si occupa di una vite o di un bullone: ciò non mi impedisce di avere verso di esso la naturale diffidenza che nutre appunto verso il meccanico, il povero bullone borghese che non si sa rassegnare di dover essere ribadito, vicino a mille altri bulloni, sul bordo d’una lastra d’acciaio di un carro armato sovietico. Seguirò i tuoi consigli, cercherò di puntualizzare il momento storico in cui vive il mondo. Dopo il 18 aprile, però. Per ora debbo, assieme agli altri superficiali come me, arrabattarmi a puntellare la trave che minaccia di cedere schiacciando me e i miei posteri. Dopo il 18 aprile, puntellata la trave, potrò fare l’analisi logica dello scampato pericolo.
Spiacente di non poter pubblicare la tua lettera per le suesposte ragioni ti saluto e ti auguro che il tuo capocellula non si accorga che tu leggi Candido. Io sono un bravo omaccio e per non metterti nei pasticci, ho riportato soltanto l’iniziale del tuo cognome. Come vedi, non conosco la dottrina marxista, ma conosco la carità cristiana. Dio ti salvi dal comunismo, compagno Maurizio.
Guareschi

Ho l’impressione di avere ritrovato in qualche scritto, anche recentemente e nonostante i sessant’anni trascorsi, il medesimo schema linguistico, la medesima assenza di verità, la medesima desolante, miserella sicumera del compagno Maurizio. Forse però la mia è solo un’impressione.
Questi, dunque, era Guareschi, uno dei più grandi scrittori italiani del secondo dopoguerra.
Egli fu, e lo è ancora oggi, misconosciuto dai quacquaraquà[5] del palazzo e odiato da les idiots savants.
Ma questo è solo un grande onore per Te, Giovannino. Riposa in pace, nel cimitero poco affollato dei galantuomini. Gli altri non contano, sono soltanto idiots savants e quacquaraquà.

Autore: Ugolino  

Pubblicato il 29 luglio 2008 sul N° 139 del settimanale on line http://www.dabicesidice.it/

Scritto il 24 luglio 2008


[1] Tratto da: B. Gualazzini, http://www.mucchioselvaggio.net/il%20mucchio/In%20piega%20nella%20bassa/Giovaninno%20Guareschi.htm

[2] a: Fontanelle di Roccabianca 1 maggio 1908 - w: Cervia, Ravenna 22 luglio 1968 - http://www.Giovanninoguareschi.com/1908.htm

[3] Les idiots savants: gli idioti sapienti sono quei soggetti che, pur soffrendo di qualche grado, anche grave, di ritardo mentale, a volte associato a turbe psichiche, mostrano in qualche settore un’abilità che spicca per essere in contrasto col basso livello dell’intelligenza. Spesso sfruttano tale capacità per millantare intellettualismo à la page e occupare posizioni di rilievo. http://www.edizionisic.it/CITYMALA1-05-GM.htm

[4] La presentazione, alla destra ed alla sinistra del titolo, merita cinque minuti della vostra attenzione:“Dicono i benpensanti che se in Italia, dal giorno della liberazione, fossero state edificate altrettante nuove case quanti sono stati i nuovi giornali che hanno visto la luce, oggi il problema della ricostruzione potrebbe considerarsi risolto. Daltra parte giova tener presente che se fosse avvenuto linverso, se cioè avessimo tanti nuovi giornali quante sono le nuove case costruite, oggi tipografi, cartai, giornalisti, agenti di pubblicità, giornalai, strilloni ecc. sarebbero costretti a ricercare una fonte di guadagno nelle aggressioni a mano armata. Accettate quindi serenamente anche questo ennesimo giornale il quale è senzaltro da preferire ad una mezza dozzina di nuovi mitra in agguato.
Tanto più che il nostro settimanale non
può preoccupare in nessun modo. Non ha infatti la pretesa di apportare importanti riforme alla morale o di dire una parola
nuova nel campo politico. «Candido», insomma, non ha la pretesa di salvare lItalia. Questo di voler salvare ad ogni costo lItalia è stato sempre il principale vizio degli italiani dogni tempo sì che sarebbe opportuno aggiornare i cartelli affissi nei luoghi pubblici: «E proibito fumare e salvare lItalia». «Candido» va quindi considerato un giornale perfettamente inutile: va comprato e letto con estrema indifferenza perché lascia il tempo e i governi che trova. Perciò leggetelo: non aggrava la situazione.”
[5]Quacquaraquà (o quaquaraquà) s. m. e f. [voce fonosimbolica, che ricorda il verso delle oche: cfr. quacquarare]. - Voce siciliana, ma diffusa anche altrove, con cui si allude genericamente a chi parla troppo, quindi chiacchierone (e, nel gergo della mafia, delatore), o anche a persona alla cui loquacità non corrispondono capacità effettive, e perciò scarsamente affidabile: “l’umanità... la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà” (L. Sciascia). http://www.treccani.it/site/lingua_linguaggi/consultazione.htm . Persona priva di qualsiasi dignità, inutile a sé e agli altri. - D.I.R.